Una vita sui binari

Una vita sui binari #5: Il treno notturno (the long way to Graz)

austria treno
foto da (www.austria.info)

Chi mi conosce sa che per varie vicissitudini ho avuto a che fare con l’Austria per gli ultimi tre anni della mia vita. Chi non mi conosce, da adesso lo sa.

Graz, la ridente cittadina a 250 km a sud di Vienna, piccola bomboniera incastonata nel cuore verde della Stiria – Steiermark, tut mir leid! – è dotata di un efficiente e grazioso aeroporto, che serve amene località come la Malesia, le Barbados, le Bahamas e via discorrendo, ma non prevede voli diretti per e da Roma. Risultato, per fare Roma-Graz o si arriva a Vienna e si torna indietro con un viaggio in treno di due ore e mezza, o si usa lui: il treno notturno.

14 ore di viaggio lungo lo stivale e oltre, passando per Orvieto, Firenze, Bologna, Venezia, Tarvisio e infine, lentamente, molto lentamente, per i boschi austriaci. Panorami invidiabili, indubbiamente, ma poco, pochissimo sonno. Quando scendi dal treno sei poco più di un cencio, sia che tu abbia dormito raggomitolato sull’ultimo posto a sedere rimasto disponibile, sia che abbia potuto godere delle straordinarie comodità della cuccetta, una specie di tomba viaggiante composta da 4 o 6 loculi dotati di lenzuola e simil-cuscino atti ad evitare il contatto diretto del corpo con la superficie pelosa dello strapuntino di turno.

Gli incontri che si fanno sul treno Roma-Vienna hanno dell’incredibile. Ciccioni alcolizzati particolarmente loquaci, vecchiette in sottoveste che ti rubano il loculo costringendoti ad inerpicarti sulle scalette per raggiungere un posto che non è il tuo, comitive di studenti urlanti, anziani fricchettoni viennesi che ti raccontano del loro viaggio a piedi da Roma a Bologna, e altre amene storie di cui posso garantire la veridicità (il fricchettone viennese l’ho conosciuto personalmente).

Non che fossi un’habitué del treno notturno, ma qualche volta mi è capitato di prenderlo. Una volta sono partita da Roma alle 19:30, per arrivare a Graz alle 13 del giorno dopo. Un viaggio della speranza, praticamente. Insieme a me e al mio ragazzo, nella tomba di turno si viaggiava con una coppia sulla cinquantina. Lui, agricoltore del basso Lazio, e lei, slovacca trasferita a Roma che aveva molto di italiano. In particolare, l’abitudine di viaggiare con un’intera dispensa nella borsa frigo – comprensiva di pane, salumi, vino rosso, frutta del proprio orto e un thermos di caffè bollente – e di offrire tutto ai casuali compagni di viaggio (in quel caso, noi).

Il perché di quel viaggio così estenuante, è presto detto: guasti sulla linea italiana. O meglio, guasti non meglio specificati sulla linea italiana, la quale – a quanto pare – ha l’abitudine di rallentare il servizio dei treni austriaci togliendo loro la corrente per garantirla a quelli di Trenitalia. Questo, quello che sosteneva il giovane capotreno da noi interrogato a Tarvisio in merito alla sosta di due ore e mezza in stazione, senza riscaldamenti, con la luce che andava e veniva e senza notizie sul presunto arrivo. Particolare aggiuntivo che la mia mente ha classificato nella categoria incidenti diplomatici facilmente evitabili: “il nostro macchinista è andato a chiedere informazioni in dogana, ma gli hanno tirato dietro una sedia”.

In quello scenario da Pulp Fiction contornato da Jodel, tra la stanchezza generale e le telefonate della gente ai parenti viennesi – del tipo: non-aspettateci-forse-arriviamo-forse-no – gli unici che dormivano beatamente erano gli spagnoli. Per la precisione, la comitiva di spagnoli che alle quattro di mattina era salita sul treno ridendo e urlando, svegliando tutto il vagone e tenendolo desto per le due ore a venire tra schiamazzi e rumori assortiti, e che a quel punto – cascasse il mondo – stava recuperando le forze perdute tra le braccia di Morfeo.

Spagnoli. Un intero vagone che bestemmia, e loro dormono.

I nostri compagni di viaggio, che avevano fatto nel frattempo amicizia col resto del treno a suon di offerte di caffè e chiacchierate con le vicine ceche – “era tanto tempo che non parlavo la mia lingua!”, ci disse la signora – avevano rifiutato la colazione offerta dalle ferrovie austriache rimpiazzandola con qualcosa di più casalingo: pane e salame. Ci era chiaro ormai che la loro borsa frigo poteva fare concorrenza a quella di Mary Poppins. E il loro stomaco a quello di Godzilla.

Una volta varcata la frontiera, il viaggio fu assolutamente tranquillo. Alla fine accumulammo un ritardo di sole cinque ore, e una volta arrivati a Graz eravamo praticamente da rottamare – non nel senso renziano del termine: proprio fisicamente.

Chissà se quella sedia lanciata in frontiera c’entra qualcosa.

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5 pensieri su “Una vita sui binari #5: Il treno notturno (the long way to Graz)”

  1. Ahahah… ogni volta che leggo delle tue avventure non faccio altro che ricevere un sano trattamento per la mia anima stanca, dopo una settimana di lavoro intenso!

    1. Assolutamente sì. E nel caso specifico è doppiamente interessante, perché sperimentare il lato molesto (o stimolante) di altre lingue e culture ha decisamente il suo perché :)

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