Non credo di essere in grado di definire la tristezza di una camera ardente vuota. Non è altro che una stanza stretta e allungata con un rialzo al centro per la bara, riempita dall’odore acre del legno. Non è lo stesso odore avvolgente dei mobilifici, di legno fresco che sa di casa: è un odore nuovo, ma pungente, nauseante.
Attorno, spaventa la compostezza del tutto: gli orli del panno che circonda la cassa che ricadono sul tavolaccio per coprirlo, come se fosse altro; il merletto dell’interno della bara; il tulle che copre il defunto, come a mettere una protezione fra lui e il resto del mondo. Come se ne avesse bisogno.
Dal lampadario della sala penzola un filo, dove forse un tempo c’era un lampadario. Ora ci sono solo due lampade attaccate al muro con una luce flebile e triste, quasi spenta. Tutto è buio. Chissà perché si pensa che i morti abbiano bisogno del buio per riposare. Accanto le pareti sono grigie, quasi sporche. La tenda oscura quella che forse sarebbe una finestra vecchia e orrenda, ma ha delle crepe, dei buchi laceri e sfrangiati che lasciano passare la luce in modo irregolare. Forse la luce è quella dell’esterno, o più probabilmente quella del corridoio del reparto. Forse dietro quella luce, dietro quel silenzio rotto dai singhiozzi delle stanze vicine, passano delle barelle. Forse dietro quella luce gli infermieri guardano l’orologio chiedendosi quanto manchi alla fine del turno, o i medici eseguono noiose autopsie di routine.
Quando vengono a prendere la bara, gli impresari delle pompe funebri usano un carrellino arrugginito. I morti non hanno bisogno di premure, tranne che di quelle dei parenti che badano che tutto sia perfetto: il trucco, la maglia, le maniche, le scarpe. Come se tutto questo potesse contare. “Restituiamogli la dignità”, pensano. E lo dicono, convinti. Ma quale dignità vuoi restituire a un corpo gonfio e deformato che non rappresenta più neppure l’ombra di quello che era in vita? La verità è che non lo fai per il morto. Lo fai per te, per il ricordo che vuoi conservare. E solo i parenti ritengono che questo abbia un senso, nessun altro. Per questo ogni piega sul panno, svolto senza essere prima passato per l’asse da stiro, ogni piega che in qualsiasi altro contesto avrebbe solo fatto arricciare il naso denotando sciatteria, ora diventa una ferita aperta. Per ogni piega una ferita. E le pieghe su quel panno, sui vestiti, sul tulle perfino, sono tante, tantissime.
La forza di chi lavora nelle onoranze funebri consiste nel perdere ogni contatto con l’umanità. Sollevano bare come se fossero casse di generi alimentari, vestono i corpi come pagliacci a carnevale. Parlano dei loro affari mentre con la porta aperta fissano i bordi della bara in zinco e piantano i bulloni in quella in legno. Parlano di turni, prezzo della benzina, weekend fuoriporta, come se quella fosse solo routine, con i parenti che nel frattempo li osservano. Da uno spiraglio, se hanno mostrato comprensione per il dolore di vedere un proprio caro sepolto per sempre sotto a una serie di coperchi; dalla porta spalancata, se la fretta ha avuto la meglio sull’empatia.
E poi ci sono i fiori. Sono talmente tanti da essere disgustosi. Corone enormi, con fiori talmente grandi e colori talmente vividi da sembrare finti. Ci sono quelli nella stanza e quelli nelle stanze accanto. E più sono, più emanano un odore penetrante. Sei mai stato in un cimitero d’estate? Ti pare di toccarla, la morte, ma sono solo i fiori che muoiono col caldo. Quello del cimitero d’estate è un odore di decomposizione veloce. Non ho mai capito la scelta di portare dei fiori freschi al cimitero. Il concetto di “fresco” è talmente opinabile, dopo un po’.
Eppure il momento peggiore non arriva in cimitero, ma in chiesa. I preti non possono conoscere tutti i defunti nel dettaglio, e allora, nel ricordarli inventano, trasformando il tragico in grottesco. È lì che la rabbia sale e si trasforma in lacrime solo quando tutto finisce e l’incenso passa tra le navate a ricordare che è ora di dare davvero l’addio al defunto, che in pochi minuti lo porteranno via. È il senso dell’ineluttabile, non c’è più tempo: da lì, indietro non si torna.
Il momento in cui arrivi al cimitero è quasi un sollievo. È lì che puoi abbandonarti al dolore, tirare i remi in barca e accettare che il tuo caro non potrà per sempre stare con te. Ti porteresti dietro quella bara se potessi, ma non puoi. E lo accetti solo quando tutto finisce e torni a casa con lacrime e ricordi, sperando che i secondi durino ben più delle prime.
Ogni funerale mi ricorda sempre la stessa cosa. Che proprio nel momento in cui avresti più bisogno di sostegno, la verità è che sei solo, circondato da luoghi spogli, freddi, squallidi. È così che gli ospedali intendono la morte e il lutto? Un luogo dove circondare i parenti del defunto con il fetore di urina che proviene dai bagni? Ed è così che la chiesa intende accompagnare le anime nell’aldilà? Con un ricordo approssimativo, stereotipato e glaciale, emanato sotto compenso economico di parenti sfiniti?
Non è per questo che non credo nell’aldilà, ma ogni volta penso che il passaggio dalla vita alla morte meriterebbe più delicatezza, più tatto, più amore.
Se mi sbagliassi ed esistesse davvero qualcosa oltre di noi, spero tu possa trovarci tutto quello che non hai avuto in vita. Spero che tu possa ricominciare. Spero che tu possa essere, finalmente, felice.
Sotto: l’inizio della prima puntata de La linea verticale di Mattia Torre. Fino a 2:33, la descrizione del funerale perfetto.