Diari di viaggio

Lisbona e me, o Alla ricerca della mia saudade

Per chi è cresciuto come me con i libri di Tabucchi e Saramago, Lisbona è una di quelle città che non puoi non vedere. La immagini spesso, leggendo, anche se niente può darti il senso di quello che vedrai dal vivo una volta lì.

Lisbona l’ho persa quattro anni fa, durante un’estate che si sarebbe dimostrata molto più complicata di quanto immaginassi, per ritrovarla solo quest’anno, per la prima volta, in modo del tutto casuale e grazie all’ospitalità di amici di famiglia trasferiti lì da poco. L’abbiamo deciso in due giorni di andarci, affrontando scali, attese in aeroporto e molte più ore di volo di quelle che sarebbero state necessarie per arrivare a destinazione con un diretto. Io, che non amo viaggiare né volare, ho viaggiato e volato sentendo che ne valeva la pena solo vedendo il profilo della città dall’alto: una macchia colorata che si estende lungo un fiume che prima diventa lago, poi torna fiume per tuffarsi infine nell’oceano.

Già poco dopo l’atterraggio mi è stato chiaro che sarebbe stato complicato ritrovare nei giorni successivi le atmosfere che cercavo. Le parole di Saramago e di Tabucchi sono intrise di ironia e saudade in egual misura. Sono complesse e articolate, scivolose come questa lingua che per capirla, anche se sembra facile, ci metti sempre un po’. La base dei loro libri è la complessità, l’introspezione, la riflessione. E inevitabilmente, non c’è riflessione dove arriva il turismo di massa.

Mass tourism is killing Lisboa, c’è scritto ad una fermata del bus verso Belèm. Ma è solo uno dei tanti messaggi che gli abitanti della città indirizzano nelle scritte sui muri e sulle panchine a quella massa informe e chiassosa che, armata di infradito, canottiera e smartphone, invade le strade dribblando le salite impervie grazie ai Tuk in lingua messi a disposizione per i più pigri. Lisbona ha bisogno del turismo, ma non lo ama. Sta iniziando a trasformarsi per aprirsi a quelle masse, ma ancora resiste. Per ora mantiene intatti botteghe, librerie, negozi di strumenti musicali, bar. Le catene commerciali in centro non sono ancora arrivate, il che rende questa città, sotto un certo profilo, un po’ più autentica di altre.

Ci sono città di cui riesco a cogliere l’essenza dopo un solo giorno, e altre in cui non basta una settimana. Ecco, io non so se Lisbona l’ho capita. Ho trascorso cinque giorni a cercare le atmosfere che avevo imparato a conoscere dai libri, e per cinque giorni mi è sembrato di non trovarle. Troppo chiasso, troppa folla, troppi colori, perfino. Troppo brillanti gli azulejos sui palazzi, troppo blu il cielo, troppo azzurro il fiume, troppo bianche le strade. Sì, perché la luce d’estate a Lisbona ti invade con una violenza che ho visto poche volte nella mia vita, al punto che in certi momenti mi sembrava – giuro – di non poter contenere l’allegria, nonostante un vento che in qualsiasi altro contesto mi avrebbe creato solo disturbo. E la famosa saudade? Cosa c’entrava? Dov’era?

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Padrão dos Descobrimentos

Poi è arrivata Alfama. Che non è affatto – o almeno io non l’ho vissuta così – il quartiere antico descritto nelle guide, con panni stesi tra le vie e vecchietti intenti a parlare in mezzo alla strada. È senz’altro il più variegato e caratteristico dei quartieri, questo sì, e ha dei miradouros invidiabili, ma è rimasto poco dell’antico quartiere di marinai e prostitute che la storia racconta. Eppure, nel giorno che le abbiamo dedicato, è successa una cosa. La prima di una serie.

Dopo aver visitato l’Igreja de Santa Engrácia, anche detta Panteão Nacional, ho deciso di salire sulla terrazza che si trova in cima, approfittando della poca folla: la fatica di salire diversi piani senza ascensore fa desistere molti dallo sforzo, inoltre all’ora di pranzo molti turisti sono più impegnati a mangiare che a visitare le chiese. Così, con la musica in cuffia, scalino dopo scalino, sono arrivata in alto. Da sola, perché il mio compagno di viaggio aveva scelto di restare giù.

Ecco, io non so come descrivere quello che ho visto. Sarà una frase fatta, ma credo che solo l’espressione tuffo al cuore esprima più precisamente il modo in cui mi sono sentita nel vedere il Tago che abbracciava la città tutt’intorno, dall’immensa lunghezza del ponte Vasco da Gama, fino a dove l’occhio poteva arrivare dalla parte esattamente opposta. Non era ancora oceano, ma sapevo che l’oceano era proprio dietro la collina, un po’ più giù. È strano trovarsi di fronte a qualcosa di così vasto: lo senti soprattutto a Cabo da Roca, il punto più occidentale d’Europa, che dopo quello sperone di roccia non c’è più niente. O forse c’è tutto, c’è tutto il resto del mondo. Dipende da come lo guardi.

So che è rischioso, dopo Sorrentino, parlare ancora di bellezza senza sembrare retorica, ma è esattamente quello che ho visto da quella terrazza. Un’immensa, dolcissima, silenziosa bellezza, che mi ha colpita come uno schiaffo, tutta insieme.

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La vista dalla terrazza del Panteão Nacional

La saudade è arrivata il giorno dopo, puntuale come un orologio svizzero.

È arrivata su un muretto del Jardim Amália Rodrigues, quasi al tramonto e con il vento che si alzava alle spalle, mentre guardavamo Lisbona sullo sfondo proprio oltre la statua del Marquês de Pombal. Sulla sinistra Alfama, con il castello in cima e le case colorate tutt’intorno. In fondo il profilo del Tago, una macchia azzurra più chiara del cielo, che col suo solito blu riempiva il resto del quadro.

È arrivata guardando proprio sotto di noi le siepi tagliate male, con dei ciuffi di foglie che venivano fuori verso l’alto, ribelli e menefreghiste. Come a dire: siamo fatte così.

È arrivata al Miradouro de Santa Luzia, qualche ora dopo, ascoltando gli unici rumori della sera: le note di un cantante terribilmente stonato e della sua chitarra, i click dei selfie di qualche turista, i tappi delle birre che saltavano in brindisi improvvisati fra ragazzi.

È arrivata guardando Alfama illuminata e silenziosa: un paese che dorme, con i ristoranti chiusi già alle undici di sera e i locali che propongono concerti di Fado a beneficio dei turisti. Una cantante a fine turno improvvisava in strada una ninna nanna per una bambina curiosa che continuava ad osservarla cercando di dare un senso al suo scialle e alle sue paillettes. E il Tago era un’immensa macchia nera circondata da luci che mangiava l’orizzonte.

È lì che ho trovato Tabucchi, Saramago, Pessoa. È lì che ho trovato la mia strana e inconsapevole saudade, che nemmeno immaginavo di avere.

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Cabo da Roca, l’Oceano

Credo che Lisbona non sia una città adatta a tutti. Da fuori è brillante, ha i colori delle case e gli azulejos che brillano sotto un cielo che ha il colore più intenso che ricordi. Ma nei vicoli e nelle piccole imperfezioni mostra senza mezze misure l’inquietudine di chi sta male senza nemmeno sapere perché. Non è da tutti sentirsi così, ma se ti succede, se ti è mai successo, allora è proprio a Lisbona che devi venire.

Lisbona non è una città per chi ha certezze. Non si vergogna di certi angoli di decadenza, anzi, li ostenta con l’orgoglio di chi sa che la malinconia è una cosa seria. Lisbona non ti giudica per il male che qualche volta ti mangia dentro, ma lo capisce, ti consola e ti abbraccia, facendoti capire che non sei solo.

Lisbona è imperfetta, esattamente come la vita. E gli azulejos sbeccati, l’intonaco che cade giù dai palazzi, i fogli di carta volanti ai lati del marciapiede e i borseggiatori sui bus alla fine hanno tutti un senso. E ti mancano quando te ne vai e torni ad un mondo che ti vuole ogni giorno perfetta e perfettamente felice.

È questa la saudade? Non lo so. Ma forse, tutto sommato, non è più poi così importante.

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