varie ed eventuali

La pizza bianca

Oggi, mentre aspettavo che arrivasse l’ora di inizio di un corso, ho fatto merenda con un pezzo di pizza bianca di Carlo, sulla Tuscolana.
In realtà, ad essere sinceri, che quella pizzeria si chiami Da Carlo lo sappiamo solo io e pochi altri che la frequentavano anni fa, prima che cambiasse l’insegna in “pizza rustica” e basta. 
Pizza rustica, che è un po’ come dire tutto e niente. La pizza bianca, se sei di Roma, è una cosa che difficilmente riesci a farti andare bene in altre città. È un’istituzione, la pizza bianca, come la mamma. Una di quelle cose che accompagna le vite di tutti noi, da sempre. E infatti la pizza di Carlo, alle elementari, era il mio spuntino a ricreazione.

Quando spiego agli amici del nord cos’è la pizza bianca romana, difficilmente capiscono. Non è una focaccia genovese, non è una pizza pane, non ha lo stesso impasto della pizza rossa. Se la compri al forno, spesso è morbida all’interno e più croccante all’esterno, con un po’ d’olio sopra e dei grani di sale grosso. In pizzeria invece è un po’ diversa, più leggera: “Ma non la condite?” mi hanno sempre chiesto dall’Emilia in su. No, la pizza bianca la mangi così, al massimo spaccata a metà con la mortadella, che è la morte sua. O la riempi di prosciutto e formaggio e te la scaldi al forno. Punto.

Da quando ho cambiato quartiere, ho fatto raramente passeggiate sulla Tuscolana. Alcuni negozi hanno chiuso e non ci sono più. Altri invece sono sempre lì. Al posto del negozio dove mamma mi comprava i vestiti quando ero piccola, oggi c’è un negozietto di nail art, con un’insegna rosa dall’aspetto dimesso. Ma, ad esempio, l’argenteria che ha aperto quando ero alle elementari è sempre lì, nella piazza più filmata della zona, quella che è finita in decine di pellicole di ogni epoca con i suoi palazzoni popolari senza balconi, che oggi condividono lo spazio con le vetrine di una bottega di street food e un pub.
Poco vicino, c’è sempre il centro anziani dove alle elementari ci portavano a fare le recite per far sorridere un po’ i vecchietti, il bar tabacchi dove compravo le caramelle gommose di Lupo Alberto, e, di fronte, la chiesa dove ho fatto catechismo per la comunione, prima di decidere che avrei serenamente potuto risparmiarmi la fatica della cresima.

Passeggiando sono arrivata verso Subaugusta, dove sorge quella che anni fa hanno chiamato “la via del cinema”, una striscia di asfalto sull’altro asfalto del marciapiede che nell’intenzione di chi l’ha costruita voleva essere un monumento di quartiere ai mostri sacri di Cinecittà. Oggi fa parte dell’arredamento urbano, e come tale la gente la tratta, parcheggiandoci sopra i motorini e portandoci a passeggio i cani. I nomi di Mastroianni e della Magnani nemmeno li vedi, mentre noti benissimo – perché è difficile non farlo – le vetrine dei negozi per coatti, con luci al neon fredde, da ospedale, e manichini vestiti con abiti leopardati e gonne di pelle finta che si aprono sul lato con spacchi chiusi da zip ascellari.

Sulla Tuscolana le quindicenni urlano sboccate accendendosi sigarette nel tentativo di sembrare più grandi. I loro coetanei maschi, al medesimo scopo, bestemmiano scatarrando sul marciapiede. Signore col carrello della spesa risalgono faticosamente le rampe dei supermercati interrati con parcheggio convenzionato. Fossimo in estate, non sarebbe strano vederle in vestaglia e ciabatte, con le vene varicose bene in vista.

In questo contesto pasoliniano, vedo una farmacia ed entro. Una signora anziana sta parlando con una commessa con la coda di cavallo, un sorriso smagliante e un’abbronzatura innaturale per essere dicembre. “Sa perché vengo qua, signorì?”, chiede la signora alla ragazza. Lei mostra i denti bianchissimi in un sorriso ampio: “No signora Maria, perché?”. “Perché séte tanto ggentili tutte le vorte”, risponde la signora, sorridendo a sua volta. Poi un sospiro. “Che buon profumo che porta, signora Marì”. Che è?”, conclude la ragazza, sempre sorridendo, e la abbraccia. Una coccola pomeridiana che non le costa niente. O almeno così sembra.

Quando esco, un’altra signora, un po’ meno anziana, insegue un babbo natale in miniatura lanciato dalla nipotina dal passeggino. Lo raccolgo e glielo restituisco. Quando le nostre mani si incrociano, lei mi ringrazia e mi sorride, e io a mia volta. Lo so che è assurdo, ma anche se non so chi sia, mi sembra di conoscerla da sempre.

È sulla via del ritorno che mi sono fermata da Carlo: l’ho fatto perché mi serviva un altro pezzo di casa. Imperfetta, volgare, un po’ cambiata, a tratti perfino rinnegata, ma sempre casa. C’è chi lo capisce vivendoci, e chi addentando una miscela semplicissima di acqua, farina, lievito e ricordi. Io faccio parte della seconda categoria. Vai a capire perché.

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