Ogni volta che esco per andare a comprare qualcosa al supermercato, mi vesto come se stessi andando in un qualche luogo di massima pericolosità. Non ho guanti e non ho mascherine. Non servono, dicono gli esperti, anche se, più di tutto, non si trovano. Gli scaffali dei negozi nel reparto guanti sono completamente sprovvisti di quelli in lattice. Più di una volta ho pensato di puntare su quelli felpati, quelli per lavare i piatti, per capirci, fermandomi appena a un passo dall’inforcarli.
Ogni volta che devo uscire di casa mi vesto con cura, ritardando il momento della partenza il più possibile: per quanto abbia voglia di prendere aria, qualcosa dentro di me mi dice che non dovrei farlo. E così mi faccio forza, limitando le uscite a una a settimana al massimo, quando è strettamente necessario, e mi preparo. Pantaloni, scarpe messe praticamente sulla porta, borsa, autocertificazione fresca di stampa, sciarpa, una busta della spesa, a volte due.
L’ultima cosa che prendo, proprio sulla porta di casa, è la giacca. Mi sconvolge ancora come l’ultima volta che sono uscita di casa per andare al lavoro la giacca fosse ancora imbottita, mentre ora serve quella leggera. Credo sia il primo anno in cui non vivo il pessimo periodo in cui l’abbigliamento non è mai quello giusto: quello, per capirci, per cui senti freddo la mattina presto e la sera, quando cala il sole, mentre muori di caldo nel resto della giornata. Quello in cui la nonna, se ce l’hai, ti consiglia di vestirti “a cipolla”. Quello per cui persino le scarpe sono un’incognita.
Quando ero piccola nonna mi ripeteva continuamente la filastrocca dei mesi. E lei, che con la memoria e le parole non è mai stata un fenomeno – tanto che ancora oggi tutte le filastrocche che conosco sono sbagliate – mi diceva: Marzo pazzarello, c’è il sole e apri l’ombrello. Chissà com’era la versione originale, quella giusta.
Comunque, Marzo sarà anche pazzarello, ma di ombrelli in questo mese se ne saranno aperti un paio, sì e no. Ogni giorno è un richiamo beffardo alla vita e al caldo. Ogni giorno c’è un piatto di spaghetti con le vongole che ti chiama da una qualche spiaggia, tentandoti col teporino perfetto dei tavoli al sole messi lì per l’occasione dopo un inverno al coperto. Ogni giorno c’è l’erba del parco più vicino che ti invita a sdraiarti sfidando le allergie stagionali. Ogni giorno c’è la macchina sotto casa che ti chiama e ti chiede di usarla e portarla via dall’asfalto di Roma, che ha voglia di correre anche lei, di cambiare aria.
Per questa ragione ogni giorno cerco di dare un senso a un tempo sempre uguale servendomi di quello che ho intorno. Punto la sveglia sempre alla stessa ora, resistendo alla tentazione di poltrire. Mi vesto per uscire, mi trucco e mi pettino anche se so che starò in casa tutto il giorno: il fatto che arrivi una videochiamata dall’ufficio è più una speranza che una certezza, ma voglio sentirmi pronta se mai fosse necessario. L’unica cosa che tengo ai piedi e che ricorda la mia presenza in casa sono le pantofole: a quelle non rinuncio.
Ogni giorno faccio almeno un’ora di attività fisica, quale che sia: prima di questo periodo mi sarei fatta uccidere piuttosto che muovere le gambe, ma ora sento che mi serve come l’aria. Cerco di diversificarla in base ai giorni: mi serve per distinguere il lunedì dal martedì, e così via. Non salto mai i pasti, e se ho uno sfizio, me lo tolgo. Cerco di non dimenticarmi di leggere. Guardo quel film che non avevo mai visto. Cerco di aprire i giornali il meno possibile. Lavoro, cerco di non sprecare il mio tempo libero.
Inizialmente pensavo che mi servisse per dare un senso al tempo, ma la verità è che mi serve per non impazzire.
Questo tempo vuoto sta dando molto e togliendo tantissimo. Le macchine per strada sembrano finalmente quello che sono sempre state: pezzi di lamiera tenuti insieme. Utili, per carità, ma poco più di questo. Le strade vuote, senza clacson e auto in seconda fila, senza persone che camminano dove non dovrebbero, senza cassonetti straripanti, non hanno più vita.
L’unica cosa che ti riporta a tutto quello che hai perso è lei: questa primavera puttana che entra nelle case prendendo a calci le finestre e che sembra voglia spaccarle coi raggi del sole.
Ed è esattamente in un preciso momento del giorno – collocabile più o meno nel primo pomeriggio, quando il sole è talmente caldo e dorato da lasciare un solco sul parquet – che ti arriva in faccia come un treno in corsa tutto quello che hai perso: gli abbracci che non puoi dare, le risate che non ti puoi fare, i luoghi che non puoi scoprire, i morti che non puoi piangere. Perché, e se hai avuto la sfortuna di vivere un lutto mentre eri chiuso in casa te ne accorgi, la cosa più orrenda che questa malattia si è portata via è stata la possibilità di seppellire i morti come cristo comanda. Non importa che si sia credenti o no: la quarantena si è portata via i riti di passaggio, l’elaborazione del dolore. Ha lasciato tutti soli nelle sue distanze imposte e nei suoi controlli serrati, fra droni, polizia e sceriffi da balcone. Ha impedito lo scorrere della vita, mettendo intralci fra i piedi di chi ne aveva più bisogno.
Non so cosa resterà dopo tutto questo. Credo soprattutto la fragilità: quella di un’Europa che non si è dimostrata all’altezza del suo ruolo, quella di chi continuerà a vedere nemici ovunque anche fra mesi, quella di chi speculerà sui rottami che questo isolamento lascerà, quella di chi resterà senza nulla. Resterà la precarietà data da qualcosa che può arrivare all’improvviso e sconquassare il mondo di ciascuno, ricordandoci quanto sia inutile fare piani, per quanto vitale. Resterà la sensazione che il mondo sia unico, che non esista un luogo sicuro di fronte a certi eventi, e di quanto sia inutile scappare.
Forse torneremo alla nostra vita, ai nostri blocchi del traffico per poter respirare, alle nostre file alla posta, ai nostri cassonetti pieni. Ma resteremo col terrore che tutto sia incerto e labile, e per questo sarà ancora più difficile trovare un senso nel progettare. La vera sfida sarà darsi una risposta: si può davvero vivere senza sogni?