Racconti

Senilità

Villa Lazzaroni il venerdì pomeriggio in estate è un piccolo polmone verde che si fa spazio fra i negozi con le saracinesche abbassate fino alle quattro e il nuovo centro commerciale nato sulle rovine di un deposito tram ormai dismesso. Di quelli, per capirci, che nell’accezione comune hanno dato vita alla nuova frontiera del cosiddetto recupero urbano.

È lì che, se ti trovi in zona e hai del tempo libero, puoi trovare riparo dalla calura cittadina, sperando di non contrarre malattie tropicali dalle uniche e sole padrone del luogo: le zanzare, le piccole bestie di Satana che, approfittando del nuovo ecosistema urbano da sud-est asiatico nato col succedersi delle amministrazioni locali, sembrano aver finalmente trovato una casa confortevole in quel piccolo riquadro di verde rubato al cemento.

Lo deve pensare anche la ragazza con capelli lunghi che proprio quel pomeriggio decide di trascorrere lì, libro alla mano, un’oretta al riparo dal caldo e dalla tipica pioggia pomeridiana della Roma dell’estate 2018. Varca il cancello, fa qualche passo e si guarda attorno: qualche lettore sparso sulle panchine e in fondo, come una piccola macchia nera, un gruppo di ragazzi appollaiati su un muretto. Il cestino più vicino, pieno di immondizia fermentata il cui olezzo fa subito estate capitolina, è a diversi metri, a distanza di sicurezza dal naso. Adocchia una panchina, si siede, apre il libro e inizia a leggere.

Non passano dieci minuti che un signore sulla settantina si avvicina e le si siede accanto. Tiene in mano il cellulare, lo scorre con l’aria consapevole di chi non ha tempo da perdere con i giochini: lui su quell’ammasso di plastica, cristalli liquidi e inserti metallici – si vede – si informa.
Mentre l’intellettuale da giardino pubblico scorre le notizie col piglio del giornalista navigato, si avvicina dopo pochi minuti un’altra figura claudicante, che avrà almeno vent’anni in più. Ha un bastone che usa per puntellarsi al suolo mentre avanza a passi lenti e sorride con un ghigno sdentato. Mentre saluta l’amico con un cenno del capo, chiede alla ragazza di potersi sedere. Lei gli fa spazio e continua la lettura. Sulla panchina ormai sono in tre.

Il primo signore, quello più giovane, attacca la conversazione, cellulare alla mano: “Pare che s’è ammazzata ‘na ragazza de sedic’anni” dichiara con piglio da nonno preoccupato. “Ma come se fa?”. Il secondo fa spallucce: ai tempi suoi queste cose mica succedevano. Il tempo scorre per una decina di minuti tra il dibattito sul nuovo cda della Rai e le prodezze del nuovo governo, finché il discorso non finisce lì, dove da qualche tempo tutti i discorsi finiscono.

La ragazza sta leggendo, ma ha già fiutato il pericolo e sfoglia le pagine con meno convinzione. Un secondo: chiude il libro, fa per alzarsi, ma poi la frase arriva.

Ora: le variabili dello stesso concetto sono infinite. C’è chi se la prende con chi arriva coi barconi, chi con quelli che rubano il lavoro, chi con chi spaccia la droga davanti alle scuole. I vecchietti di Villa Lazzaroni preferiscono la linea romantica, quella che prende le mosse dai paladini provenzali, quella che affonda le sue radici nella tradizione cavalleresca di difesa della donna, e così, con fare solenne pronunciano la loro amara verità:

Sti negretti vengono qua a fà male alle ragazze nostre.

La scelta più opportuna per la ragazza sarebbe una sola: alzarsi e andarsene. Ma lei crede nel dialogo, nella condivisione, nella gallina del Mulino Bianco e nella gentilezza degli estranei sopra i settanta sulle panchine dei parchi. Così, quando il vecchietto claudicante cerca conforto in lei con un “Eh signorì. Pore le ragazze nostre, vé?”, lei risponde, netta:

“No guardi, non sono proprio d’accordo”.

I vecchietti si guardano per un istante. Fanno tilt, come un flipper in cui la palla sembra aver preso vita propria: non può averlo detto davvero. Banalmente, i due non trovano la risposta nel prontuario della conversazione da parco pubblico, non la sanno gestire. La guardano stupiti, solo per pochi decimi di secondo, giusto il tempo che lo stupore lasci spazio ad un crescente disgusto. Il vecchietto claudicante si umetta il labbro inferiore con una rapida passata di lingua: per un attimo la ragazza pensa che stia per sputare, ma lui la sorprende e ricaccia dentro la saliva. Il disgusto che hanno dipinto sul volto lascia campo aperto a una rabbia primitiva, immotivata, di quelle che si innescano solo di fronte a un qualche torto personale, a una violenza intollerabile, a un’ingiustizia contro cui non ci si può ribellare.

È il più giovane a prendere la parola: “Come sarebbe a dì che lei nun è d’accordo?” chiede alzando la fronte e serrando i denti, a mo’ di sfida.

Naturalmente la domanda non è reale, prevede una sola risposta: una rettifica il più possibile circostanziata. Ma la rettifica non arriva, anzi.

“No guardi, non sono proprio d’accordo”.

“Nun è d’accordo co’ che?”

“Con questa cosa dei negretti che lei ha detto poco fa. Beh, non sono d’accordo”.

La rapida escalation da rabbia primitiva a furia cieca in alcune persone è qualcosa di immediato. È una pura e semplice volontà di sopraffazione dell’altro, un’ingiustificata volontà di aver ragione, qualsiasi cosa questo voglia dire.

Il novantenne mostra segni di cedimento: sono passati i tempi in cui le donne lasciavano parlare i mariti limitandosi ad un assenso col cenno del capo. Oggi, invece, non solo le ragazze si ammazzano a 16 anni: qualcuna risponde pure. E legge, che è peggio.

Il settantenne invece tiene il punto: sa di essere la colonna portante del fronte di difesa dell’italico suolo, così, mentre il compare cerca di contenere come può la salivazione eccessiva che al momento comunque sembra proteggerlo da un infarto imminente, lui prende il cellulare e passa al contrattacco. Sciorina dati: i clandestini in Italia sono il 90%: “l’ha detto il Ministro. E quelli lì, i negretti, nun fanno gnente da mattina a sera” continua il vetusto e informato galantuomo, indicando con un cenno della mano la macchia nera vicino all’entrata, che ora prende forma di cinque ragazzoni neri che parlottano tra di loro.

“Lei ancora che li difende. Ma quelli che stanno a fà? Perché nun lavorano?” continua a berciare il vecchio tra i cenni di assenso del compare. La ragazza prende fiato: “Andiamoci a parlare, vuole? Vengo con lei” dice “gli andiamo a chiedere perché stanno lì, chi sono, che lavoro fanno”.

Il novantenne salta sulla panchina e inizia a biascicare. Poi prende ad agitare il bastone lanciando improperi contro l’universo mondo dall’Equatore in giù. L’amico gli mette una mano sulla spalla: gli dice di stare calmo, ma la sua bocca è serrata. Poi esplode: lui non deve parlare proprio con nessuno, certe cose gli basta vederle. “C’ha presente quelli che vengono a pulì er marciapiede e dicono che se vojono integrà?” chiede “beh, io a uno che stava qua davanti mentre passava j’ho detto de annasse a integrà da ‘n artra parte”.

Il vecchietto apre il petto come un gallo cedrone, fiero del suo gesto da eroe contemporaneo. La ragazza prova a spiegargli che esistono persone che non possono lavorare per legge, perché magari sono in attesa dello status di rifugiato. Ma mentre lo dice, entrambi i vecchietti saltano su e iniziano a urlare: “Vengono qua senza documenti” strillano “mica ce l’hanno scritto in fronte che sò rifugiati. E poi i soldi per pagà er barcone ce l’hanno”.

A guardarli dall’esterno, questi vecchi con la schiuma alla bocca sembrerebbero relitti di un’altra epoca. La ragazza prova a spiegare cos’è un visto e perché tanti paesi non lo concedono. Cerca di farli ragionare su cosa significa andarsene per mare quando magari il mare nemmeno lo hai mai visto, e rischiare pure di morirci. Cerca di fargli capire che uno, potendo, su un barcone non ci metterebbe proprio piede. E poi, la butta lì come cosa ovvia, in ogni caso mica si può farli affondare.

Pensa che forse è fatta. Che la leva dell’empatia, dell’umanità, con dei signori che probabilmente hanno avuto una famiglia, una moglie, dei figli, non può fallire. Pensa ai suoi, di nonni, alla sua, di famiglia, e sa che ha ragione.

Ma un istante dopo il più vecchio dei due riesce finalmente ad articolare una frase di senso compiuto, e tutto prende un altro colore: “Se vengono cor barcone lo sanno che rischiano. E allora se crepano chissenefrega, noi dovemo pensà all’italiani”. Poi tira il fiato: “E mo’ ce sta uno che finarmente ce sta a pensà”.

La ragazza si blocca. Li guarda e capisce che discutere ancora è inutile: di fronte c’è il nulla. Parlare con loro o con un piccione sarebbe la stessa cosa: non c’è dato, esperienza, appello di umanità che tenga. C’è solo una rabbia feroce e immotivata, montata negli anni per chissà quale torto perpetrato ai danni di chissà quale antenato o pronipote e scaricata adesso sui cinque ragazzi vicino alla panchina e su chi nasce con la sfiga di avere il loro stesso colore. O, semplicemente, di dire cose umane.

Si alza, li guarda: “spero che i vostri figli non debbano mai emigrare” dice, e se ne va. Dietro sente altri urli: “vai, vai, valli a difende, l’amici tua”, e altre cose che non riesce a capire. Poi bofonchia un vaffanculo tra i denti e inforca la metro. Un altro giorno di odio ordinario.

(Racconto pubblicato sul numero 4 di Svacco Creativo. Scarica la rivista in formato .pdf o leggila online su ISSUU)

3 pensieri su “Senilità”

  1. Guarda, sembra che contenitore (parchetto urbano con zanzare e immondizia) e contenuto (raccoglitori umani di schifezze) siano in sintonia tra loro… e questo mi fa ancora più tristezza

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