Racconti

Tequila sunrise

“Camevieve, me ne povta un altvo?”

Domenico grondava sudore dalla testa ai piedi. Goccioline vischiose gli scendevano dalla fronte ormai completamente lucida, colando direttamente sulla camicia bianca e sul gilet color cachi. “T’ pozzn’ accìt”, sussurrò tra i denti, anche se quello che venne fuori in realtà fu un banale “arrivo subito, signora”.

“Un altro di questi cosi avancioni, pev favove. Non so come si chiama”

“Tequila sunrise, signora”

“Con ghiaccio”

“Ovviamente, signora”

“Pvesto, che fa caldo”

“Certo, signora”

“E delle avachidi salate, già che c’è”.

La sciùra in bikini era sdraiata mollemente sul lettino con grandi occhiali da sole e un largo cappello di paglia. Bracciali e collane d’oro, totalmente privi di qualsiasi tipo di funzionalità per chi abbia l’intento di abbronzare al sole il maggior numero di parti scoperte possibile, ne tradivano le origini: appartenente – da generazioni –  ad una upper class  che classifica il resto del mondo in base al numero degli zeri sul conto in banca.

Domenico, che di zeri poteva vantarne ben pochi, guardava l’abbronzata signora dal costume La Perla, intenta a muoversi sul lettino alla ricerca del sole in un modo che – pur essendo sexy nelle intenzioni – risultava più che altro un esercizio di contorsionismo suggerito da qualche strana pratica orientale.

Fu allora che le mani di Domenico si posarono sul collo rugoso della sciùra e vi si strinsero come un cappio. Lei annaspava, senza riuscire a proferire nient’altro che il rantolo della sua nobilissima erre moscia, mentre i suoi occhi lo supplicavano di smetterla. Poi, il silenzio.

Domenico aprì gli occhi.

“Ancova qui? Non si sbviga? E poi che schifo, è tutto sudato.”

Era successo di nuovo. Invertì rapidamente il passo verso il bancone del bar, tergendosi la fronte con il polsino destro della camicia: effettivamente il suo aspetto non era il massimo. Passò l’ordinazione al barman e andò a cambiarsi. Quando tornò, con una nuova camicia e un nuovo gilet, sul bancone c’era il cocktail ad aspettarlo: fresco, con enormi pezzi di ghiaccio e una fetta di arancia sul bordo, di un arancione quasi fosforescente: “cumpà, fann’ n’atr pi’ mi”, disse rivolto al barman, e portò il bicchiere alla sciùra. I secondi 11,4 gradi della giornata, per lei. Ed era solo mezzogiorno.

La rugosa cliente gli prese il cocktail dalle mani, posò le arachidi sul tavolino poco distante, si abbassò gli occhiali da sole verso la punta del naso e lo squadrò:

“Ah bravo, si è cambiato. Sì, perché guavdi, il suo stato eva inaccettabile, sa”.

“Sì, è il caldo di oggi…”

“Eh, ma cavo mio, lei deve soppovtave. Io pago cinquecento euvo al giovno pev stave qui: come minimo pvetendo che i camevievi siano puliti. O no? Mi dica lei: non ho vagione?”

“T’ pozz’ cascà ‘a ciocc’ nell’acqua”

“Come dice?”

“Che ha ragione, signora”

“Ah beh, ci mancherebbe. Adesso se ne vada, che mi copve il sole”.

La sciùra allungò una mano tintinnante di braccialetti verso il pavimento, dove un orrendo barboncino si era acciambellato, ansimante e sbavante per il caldo, con la sua ciotolina dell’acqua e il suo collarino rosa tempestato di pietruzze trasparenti.

“Comunque, quel suo gilet ha un colore ovvendo”, aggiunse.

Domenico tornò a passi lunghi verso il bancone, bestemmiando nell’antica lingua dei suoi avi. Quando arrivò dal barman, sentenziò con convinzione:

“Quijj’ha da crepà”.

Matteo lo guardò per un istante, scosse la testa, e mentre gli allungava il bicchiere con il suo cocktail, gli disse:

“Domenico, mi son veneto. Te gò già dito che si te parli in abrussese no capisco un casso”.

“Deve morire!”, ribadì Domenico in una facile traduzione estemporanea, e aggiunse “e comunque pure quando parli tu non si capisce niente”. Domenico tirò un sorso dalla cannuccia e storse la bocca: era praticamente analcolico. Lanciò uno sguardo di odio a Matteo, che gli regalò in cambio un sorriso furbetto. Dalla radio della piscina veniva una musica tropicale, una canzonetta che diceva qualcosa come “muoviti, balliamo alla luce della luna” o “che bello il ritmo della notte” o giù di lì.

Diede un secondo sorso e si accorse che nel frattempo stava ricominciando a sudare: due grosse macchie grigiastre si stavano di nuovo impossessando della sua camicia proprio in prossimità delle ascelle. In cerca di refrigerio si voltò verso la piscina, ma lo raggiunsero delle urla agghiaccianti. Un capannello di persone era chino sull’acqua, mentre qualcuno si sbracciava chiedendo aiuto: “affoga! Sta affogando!”. Domenico lasciò il bicchiere sul bancone e si avvicinò al bordo della piscina a passo svelto, attento a non scivolare sul selciato. Fu lì che guardando il lettino della sciùra si accorse che era vuoto: sentì il solito rantolo da erre moscia, troppo tardi perché qualcuno potesse salvarla.

Si fermò.

“Ma lei suda di nuovo!”

Ancora. Anche stavolta.

Domenico era in piedi davanti alla signora raggrinzita, ormai a metà del suo secondo Tequila Sunrise e abbrustolita in – quasi – ogni parte del suo corpo. Lui la guardava con sguardo ebete, totalmente preda del caldo, mentre lei, che nel frattempo si era tolta gli occhiali, vittima di un accesso d’ira, lo fissava con disprezzo nell’inutile intento di mortificarlo. Il barboncino gli abbaiava contro talmente forte che Domenico pensò che con un po’ di fortuna sarebbe stramazzato al suolo entro un paio di minuti al massimo.

“Pvesentevò un veclamo ufficiale con il divettove del vesovt. Lei non mevita di lavovave in un posto del geneve, mio cavo!”

“Ma lei era in acqua…”, biascicò Domenico, allentandosi il papillon.

“In acqua ci dovvebbe andave lei, a favsi un bel bagno! Se ne tovni al mevidione, tvoglodita!” rispose la sciùra, facendogli cenno di andarsene con la mano, come se stesse scacciando un insetto fastidioso. Poi si cacciò un’arachide in bocca e condivise con la vicina di lettino un pensiero che non lasciava spazio a risposte: “E’ indecente che in Savdegna pevmettano a  individui del geneve anche solo di metteve piede”.

Domenico non replicò, e se ne andò a testa bassa figurando nella sua mente scene sanguinolente di torture medievali ed efferati omicidi, che vedevano come unica protagonista – guest star di un realistico film dell’orrore – proprio la dama con la erre moscia. Poi, ad un certo punto, arrivarono le voci: “Soffoca!”. Accanto al lettino donnine strizzate in minuscoli bikini si affannavano in improbabili manovre di soccorso. Due ragazzoni corsero verso di lui, lo spinsero via e si misero a trafficare con la sciùra, paonazza in volto e rantolante. Intanto, il cane abbaiava come fosse in preda a convulsioni, richiamando dal ristorante e dal bar il resto dello staff.

Domenico restò immobile, a fissare l’arancione del cocktail della signora. Chiuse gli occhi e li riaprì: le altre volte aveva funzionato, ma ora no, erano tutti ancora lì. Dopo un minuto la signora smise di agitarsi e restò sul lettino con gli occhi spalancati. Urla di panico iniziarono a diffondersi fra gli astanti, mentre i paramedici cercarono di allontanare la folla e portare via il corpo.

Di Domenico pensarono solo che fosse in un tale stato di shock da non essere stato capace di intervenire. Un colpo di sole, dissero.

Quando Matteo gli chiese come stava, qualche minuto dopo, la risposta fu lineare:

“E comunq’, j’Abbruzz’ n’è miridiun, zocc’la”.

Questo racconto partecipa all’EDS arancione del Grande Cocomero della Donna Camèl. Chiedendo scusa in anticipo alle “sciùre” e ai vicini di casa abruzzesi per essermi servita di loro per portare a termine i feroci dettami della padrona di casa EDS, vi segnalo i racconti di tanta altra bella gente:

  1. Melusina con Latte o limone?
  2. Dario con Matilda
  3. La Donna Camel con Condomini
  4. Pendolante con Giuseppe
  5. Lillina con PC gate
  6. Hombre con Essere Johan Cruijff
  7. Melusina con La pappa
  8. Angela  con Notte insonne con gatti rosso arancio
  9. Cielo con Jamaica discromatica.
  10. Calikanto con La torta di amarene
  11. Single mama con In pirlo veritas
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22 pensieri su “Tequila sunrise”

  1. Intanto complimenti per il pezzo, molto accattivante. La scena è perfettamente visibile dalle tue descrizioni e i dialoghi sono realistici. Complimenti anche per la conoscenza di tutti quei dialetti ;)
    E poi, devo dirti, che ogni volta che passo da qua, quel “call me” lì mi fa partire “Cal me Al” di Paul Simon (conosci?) e beh, son bei ricordi.

    1. Ti ringrazio. In realtà come ho già detto sopra io lo cambierei da cima a fondo: non è nel mio stile copiare le idee del prossimo, e rileggendolo in alcuni punti mi è parso veramente troppo simile a “Travolti da un insolito destino…”, come giustamente mi faceva notare Dario. Anche se era in buona fede, quindi, stavolta shame on me. Riesco meglio nei racconti pendolari, mettiamola così :)
      La canzone che citi non la conosco, mi sa che devo recuperare. Quando sento “call me” a me vengono istintivamente in mente i Pearl Jam di “Daughter” (anche se lì c’è la negazione: oh, che ci vogliamo fare… :) ).
      A presto, Hombre!

    1. Ti ringrazio :) Io ho dato solo uno sguardo veloce al tuo, ma mi riprometto di spulciarmelo per benino nei prossimi giorni, quando avrò un po’ di tempo in più. Intanto benvenuta da queste parti!

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